Il 18 maggio 2018, durante l’evento del cinquantesimo anniversario della creazione dell’UNICRI tenutosi nel contesto della 27esima Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale, Maria Falcone (sorella del magistrato Giovanni Falcone e Presidente della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone) è stata nominata testimonial dell’UNICRI. La nomina ha voluto essere anche un tributo a tutte le vittime della criminalità organizzata, affinché il loro sacrificio e la loro eredità siano la base per costruire società più giuste, libere dalla violenza e dalla sopraffazione.
Suo fratello è stato un grande giudice e uomo di stato, tra i primi a capire le dimensioni reali del fenomeno mafioso e l’importanza della cooperazione giudiziaria. Il suo lavoro e la sua eredità hanno contribuito a cambiare le strategie di contrasto alla criminalità organizzata. Il suo, è stato un cammino marcato dallo spirito di sacrificio e dalla consapevolezza dei rischi. Nato e vissuto in Sicilia e circondato da forme di accettazione e rassegnazione del fenomeno mafioso, quale è stato il suo rapporto con la sua terra, la forza e la determinazione che ne ha tratto?
Giovanni è stato profondamente siciliano, un uomo che ha sempre mantenuto un legame particolare con la sua terra.
Bisogna tenere presente che la nostra famiglia aveva sempre vissuto in uno storico quartiere palermitano, quello della Kalsa, in cui, come lo stesso Giovanni più volte disse, vivevamo anche tanti mafiosi. È proprio in un contesto del genere che Giovanni cresce, forma il suo carattere e inizia a conoscere altri ragazzini giocando a calcio nel campetto della parrocchia. Ad esempio, proprio durante gli anni dell’adolescenza e proprio in quel quartiere, avviene il suo primo incontro con Paolo Borsellino, così come con altri ragazzini, destinati in futuro a divenire i noti personaggi della malavita, come il boss Tommaso Spadaro, conosciuto in occasione di un torneo di ping pong organizzato in oratorio.
Questa circostanza gli permise di entrare a pieno contatto con l’animo di molti di loro e di comprenderne a fondo gli atteggiamenti e i segni.
Solo una persona cresciuta in un simile contesto, poteva avere gli strumenti e l’elasticità per comprendere le reali dimensioni del fenomeno mafioso e solo una persona dotata del suo intuito poteva capire il ruolo fondamentale che poteva svolgere una più ampia cooperazione giudiziaria.
Quali sono stati i pilastri del pensiero di Giovanni Falcone in tema di giustizia e cooperazione internazionale?
Tutto ebbe inizio quando all’inizio degli anni ‘80 il giudice Chinnici, dopo l’omicidio del procuratore Costa, volle costituire un gruppo di lavoro avvalendosi della collaborazione di Giovanni, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello. Questo progetto fu poi sviluppato e consolidato da Antonino Caponnetto, che nel 1984 ufficializzò la nascita di un pool di magistrati (cui si aggiunse Leonardo Guarnotta) con il compito di coordinare le indagini fornendo uno sguardo d’insieme sul fenomeno mafioso e con l’obiettivo di debellarlo e riconsegnare la Sicilia ai cittadini onesti.
Un momento determinante per la nascita del cosiddetto “Metodo Falcone” è certamente rappresentato dal processo Spatola, in cui Giovanni grazie alle sue indagini riuscì a far condannare 75 esponenti della cosca Spatola, Gambino e Inzerillo.
Fu grazie a questo successo che il Metodo Falcone venne universalmente riconosciuto per quello che era e cioè una tecnica investigativa innovativa e rivoluzionaria fondata su 3 pilastri: osservare il fenomeno dall’alto, nel suo insieme per poi analizzarlo nello specifico come con una lente d’ingrandimento; individuare, seguire e smantellare i rapporti economici sui quali si basavano le relazione tra le organizzazioni criminali e avvalersi della collaborazione del “pentiti”, quale ottimale chiave di lettura delle dinamiche mafiose.
Proprio in quegli anni, e grazie a questa tecnica investigativa, nacque anche la collaborazione con la DEA e l’FBI statunitensi che portò enormi successi, permettendo di sgominare il traffico di droga finanche oltreoceano.
C’è mai stato un momento nella vita di suo fratello in cui lui ha pensato che la mafia non si sarebbe mai potuta sconfiggere?
No, non lo ha mai pensato. Anzi al contrario mio fratello Giovanni sosteneva che la mafia sarebbe stata certamente sconfitta. La mafia non è sempre esistita, è un fenomeno umano, e come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio e avrà una fine.
Semmai va detto che Giovanni, durante la sua attività di magistrato diretta alla feroce lotta alla mafia, ha incontrato numerosi ostacoli e nemici, che hanno tentato di screditarlo mettendo in cattiva luce il suo operato e criticando i suoi metodi innovativi.
Gli attacchi di questi personaggi, in effetti, gli fecero comprendere che si trattava di un fenomeno oltremodo radicato, complesso e intrecciato e che pertanto raggiungere la meta finale non sarebbe stato affatto semplice. Ma ciò nonostante il suo profondo senso del dovere, la lealtà e l’amore per la sua città e per le istituzioni lo spinsero a non indietreggiare né a mollare mai di fronte al suo obiettivo.
La Fondazione Giovanni and Francesca Falcone che lei guida come contribuisce a portare avanti l’eredità di suo fratello?
Questa è una domanda che mi viene posta spesso e alla quale rispondo sempre con una frase di Giovanni che considero il suo “testamento morale” e cioè: “ognuno deve compiere fino in fondo il proprio dovere e svolgere la propria parte, grande o piccola che sia, a costo di dover sopportare qualsiasi sacrificio”.
Da questo punto di vista la Fondazione Falcone svolge attività nel campo ad essa più congeniale, cioè quello dell’educazione e della promozione culturale.
Direi che ci occupiamo di fare “contro-cultura” e insegnare in particolare ai giovani cosa è la mafia e quanto spregevoli siano le sue attività e modalità d’azione.
Per questo motivo ci occupiamo ormai da 26 anni di creare progetti insieme alla migliaia di scuole italiane per raccontare agli studenti chi era Giovanni, perché è morto, ma anche di fornirgli strumenti per schierarsi dalla parte della libertà e ribellarsi alla mafia anche quando fa delle proposte allettanti.
In particolare, organizziamo ogni anno, in collaborazione con il MIUR, un concorso nazionale al quale partecipano centinaia di scuole da ogni angolo del Paese. Grazie al concorso riusciamo a portare dentro le scuole storie e informazioni che normalmente ne restano fuori e che culmina nell’ormai celebre “Nave della Legalità”, sulla quale salpano con destinazione Palermo circa 1.500 studenti italiani che vengono, ogni 23 maggio, a celebrare la memoria di Giovanni e degli altri grandi Uomini e Donne che hanno perso la vita lottando per il bene comune.
Le nuove generazioni non hanno vissuto gli anni più violenti della lotta alla criminalità organizzata, gli anni della mafia stragista di Capaci e via D’Amelio. È stata più pericolosa quella stagione di mafia oppure quella che lei oggi definisce come un fenomeno “silente”?
Oggi la mafia, un po’come in tutto il mondo dopo gli anni della globalizzazione, è certamente cambiata, si è in un certo senso “imborghesita”, infiltrandosi nelle amministrazioni, nelle professioni e nei centri economici e di potere in genere. Ma non bisogna correre il rischio di credere che per questi motivi sia diventata meno pericolosa e sanguinaria.
Se da un lato è vero che, grazie alla forte repressione attuata dallo Stato per mezzo delle Forze dell’Ordine, le stagioni stragiste si sono concluse dall’altro lato è evidente che per mano della criminalità organizzata vengono commessi oggi alcuni tra i crimini più orribili e offensivi per tutta la collettività, alcuni esempi in tal senso sono rappresentati dai fenomeni delle agromafie, della tratta di esseri umani legata al caporalato, dal commercio di armi o dal sistema clientelare che spesso influenza la gestione delle risorse pubbliche.
Certo questa è mafia che fa meno rumore e si vede di meno, ma ciò non attenua la sua pericolosità e la sua spregevolezza. I ragazzi devono imparare che possono trovarsi ad avere a che fare con la mafia e con i suoi metodi anche quando hanno di fronte persone senza coppola e lupara ma con lauree e cravatte e possono comportarsi di conseguenza, ribellandosi alle loro logiche di prevaricazione.
Quali sono le difficoltà che incontra la Fondazione nel promuovere in modo efficace la legalità?
Promuovere i valori della Giustizia e della Legalità non è di certo un’attività semplice o agevole, ancora oggi, dopo tanti anni, incontriamo difficoltà, in particolare nelle zone più trascurate del Paese e nello specifico nelle grandi periferie urbane, ove, a volte, risulta arduo far recepire lo stesso concetto di norma, di regola. Tuttavia ci tengo a sottolineare che, a poco a poco, anche grazie all’attività di educazione e sensibilizzazione, qualcosa sta cambiando e si comincia ad avere una percezione più marcata dell’importanza di vivere in un contesto di rispetto del prossimo e di Legalità.
Lei ha deciso di portare avanti un’eredità dolorosa, ma la sua è una missione che può cambiare il futuro per molti. Quale è stato il momento più bello della Fondazione in cui ha potuto assistere ai risultati del suo lavoro?
Certamente l’eredità morale lasciataci da Giovanni è molto dolorosa e portare avanti le sue idee è un attività costante e faticosa, ma devo ammettere che riserva anche molti momenti importanti.
Durante le mie continue visite nelle scuole italiane tantissime volte mi capita di dialogare con i ragazzi e sentire le loro domande pertinenti e interessate, avendo così l’opportunità di aiutarli nella loro crescita e formazione personale, è un motivo di grande orgoglio e soddisfazione. La gioia più grande però è senza dubbio vedere le migliaia di bambini e ragazzi che con gli occhi pieni di entusiasmo mi promettono di portare sempre sulle loro gambe le idee di Giovanni Falcone.
Sono loro la speranza e il futuro dell’Italia e vederli così uniti, ogni 23 maggio, sfilare per le vie di Palermo fino a giungere sotto l’Albero Falcone per testimoniare da che parte hanno deciso di stare credo sia davvero un enorme successo per la nostra Terra.
Obiettivo 16 dell’agenda di sviluppo post è incentrata sulla promozione di società pacifiche e inclusive, la giustizia e le istituzioni forti. Gli Stati membri riconoscono che non vi può essere sviluppo sostenibile senza pace e la pace senza sviluppo sostenibile. Quale è a suo avviso il vantaggio che la criminalità organizzata trae dalla debolezza dei sistemi di giustizia?
La violenza e l’insicurezza sono problemi generali legati al benessere generale e che riguardano tutti gli Stati, pertanto ci sono parecchi motivi per essere fiduciosi in merito al raggiungimento dell’Obiettivo 16 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
Già il semplice fatto che se ne parli e che si sia anche raggiunto un accordo in merito a questioni importanti quali giustizia, corruzione, libertà fondamentali e pace mi sembra un buon passo in avanti.
Del resto è esattamente in contesti in cui viene meno la presenza delle Istituzioni che nasce e si sviluppa il germe della mafiosità, se alle persone non si offre una prospettiva di speranza e di crescita è più facile lasciarsi ammaliare dalle sirene della criminalità che com’è noto offrono laute e facili ricompense a fronte dei feroci crimini commessi.
In ragione di ciò ritengo che creare a tutti i livelli un meccanismo volto a prevenire la violenza, combattendo il crimine e il terrorismo, significhi compiere un enorme progresso per il raggiungimento della pace.
Quale è il rapporto tra mancanza di opportunità di sviluppo e crescita e la criminalità?
È un rapporto strettamente connesso, come ho già detto, quando uno Stato non riesce a offrire una prospettiva di speranza ai suoi cittadini si effettua un vero e proprio assist nei confronti della criminalità organizzata e quindi della mafia. Direi in particolare che la mancanza di opportunità e di sviluppo economico contribuisce a generare nello specifico un certo sentimento di avversità nei confronti delle istituzioni, ritenute colpevoli di non interessarsi delle condizioni dei cittadini.
È grazie a un simile meccanismo di ostilità verso lo Stato, peraltro, che la mafia è nata.
Lo Stato non si preoccupava dei suoi cittadini, e in questo “vulnus” si è inserita la mafia, offrendo a suo dire condizioni di vita migliori. Eppure la storia ci insegna che nessuno dei personaggi facenti parte di organizzazioni criminali ha mai visto migliorare le proprie condizioni di vita, al contrario tutti si sono sempre trovati oltre a dover eseguire gli ordini, commettendo crimini orrendi, anche a doversi ben guardare dai loro stessi affiliati e dalle forze dell’ordine.
Non bisogna però commettere l’errore di pensare che la mafia sia legata esclusivamente alla povertà, o al sud. Ci sono talmente tanti fattori, in un fenomeno così complesso, da rendere impossibile l’individuazione di una sola causa.
Accanto al disagio economico infatti, ci sono altri elementi da tenere in considerazione: ad esempio l’affezione a una famiglia, o la voglia di esercitare un potere o ancora l’attitudine alla violenza e il desiderio di vendetta.
Quale il ruolo dell’istruzione nel combattere le mafie?
Come diceva Gesualdo Bufalino, “la mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”. Non potrà di certo bastare la repressione a opera delle Forze dell’Ordine se questa non sarà accompagnata da un’azione educativa e culturale che faccia venir meno il terreno fertile sul quale la mafia si sviluppa. Pertanto, la scuola gioca un ruolo decisivo in quanto deve puntare a creare una società che ripudi i disvalori della mafia, quali ad esempio l’omertà o l’indifferenza, sino a debellarli del tutto.
L’istruzione ha il dovere di promuovere la cultura della Legalità e spiegare ai ragazzi che rispettare gli altri è bello e fa stare bene mentre adorare falsi miti può portare ad atroci conseguenze.
Quale è il messaggio che la Fondazione vorrebbe lanciare ai giovani di tutto il mondo?
Lo stesso che Giovanni ci ha insegnato, e che da tanti anni diciamo a tutti i ragazzi che incontriamo nelle scuole: non abbassare mai la testa, essere coraggiosi e compiere sempre e fino in fondo il proprio dovere. Il futuro è tutto nelle loro mani.
Intervista realizzata dall’UNICRI