Il messaggio di Paolo Borsellino è oggi vivo e vitale. Esso è cruciale soprattutto per le giovani generazioni.
Se da un lato, difatti, la strage di via D’Amelio (come quella di Capaci) continua ad essere una ferita profonda, dall’altro l’eredità morale lasciata da Borsellino ci sprona a onorarne la memoria offrendo ognuno, nell’ambito delle proprie possibilità, un contributo alla difesa dei valori di giustizia, legalità, integrità e trasparenza.
Più in particolare, il pensiero di Borsellino si presta ad una lettura complementare rispetto a quello di Giovanni Falcone, a tratti inedita nella sua più innovativa e significativa portata.
Giovanni Falcone, come è noto, teorizzò – tra l’altro – la necessità di una cooperazione internazionale rafforzata nel contrasto al crimine organizzato transnazionale. I Paesi non devono sentirsi soli e devono poter contare su una alleanza antimafia globale, secondo una visione successivamente cristallizzata nella Convenzione delle Nazioni Unite di Palermo del 2000.
Falcone fu dunque un pioniere della diplomazia giuridica multilaterale: la Convenzione di Palermo conta oggi su 190 Paesi membri, prevedendo peraltro un meccanismo di verifica sul piano applicativo che consentirà di valutare il livello di adempimento dei relativi obblighi da parte di ciascun ordinamento nazionale.
Allo stesso tempo, la lotta alla mafia ed alla corruzione non può considerarsi un affare di competenza solo della amministrazione pubblica e delle istituzioni di governo.
Sono invero sempre più consistenti e decisive le forme di partecipazione della società civile, del settore privato e di numerosi attori non governativi nella prevenzione del crimine, attraverso iniziative di sensibilizzazione culturale e valoriale.
Ed è proprio questo il tratto distintivo del pensiero di Paolo Borsellino, sorprendentemente complementare rispetto a quello di Giovanni Falcone.
Le conseguenze negative delle attività criminali sono immani sul piano dello sviluppo economico, della partecipazione democratica e dell’esercizio delle libertà fondamentali e delle prospettive di crescita umana, sociale e lavorativa.
Proprio Paolo Borsellino sottolineò queste implicazioni in un celebre e bellissimo discorso. Egli disse che «la lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
Il 4 maggio del 1989, Borsellino tenne al liceo Visconti di Roma una conferenza incentrata sul tema dell’importanza dei giovani nella lotta alla mentalità mafiosa.
«Se la mafia – disse – fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura… E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia… perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia…. entrare nelle scuole… e addirittura all’interno delle famiglie… Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia… è stato (proprio) questo senso di sfiducia nello Stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che… hanno vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi… verso lo Stato… verso le istituzioni pubbliche e non verso i soggetti che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale».
E sempre Borsellino, va ricordato, addirittura già da studente al liceo, scriveva sul giornale dell’istituto “Meli” di Palermo, di cui era direttore responsabile, nel pieno convincimento del rilievo culturale e di impegno civile delle giovani generazioni per la costruzione di una società migliore.
Lo studente impegnato è poi divenuto magistrato eroico, che si è spesso rivolto proprio agli studenti ritenendo fondamentale il loro impegno civile.
Ed è questa la nuova frontiera della lotta alla mafia ed alla corruzione oggi. Come trent’anni fa, la chiave del successo nel contrasto al crimine organizzato sta infatti nella chiamata alle armi della società civile, ad una compartecipazione attiva e ad una vigilanza collaborativa.
Di fronte a fenomenologie socio criminali come le mafie non si può pensare di reagire solo reprimendo le condotte in sede penale: l’integrità e la trasparenza non si impongono soltanto dall’alto.
È essenziale una svolta culturale, la disseminazione valoriale di cui una società come quella contemporanea ha assoluto bisogno e della quale Paolo Borsellino soleva spesso discorrere.
Quelle debolezze che generano le crepe nelle quali si infiltra il crimine non vengono meno solo per la paura di una sanzione: pensare diversamente è illusorio. Occorre pertanto muovere anche sul piano della pedagogia sociale, della condivisione delle scelte, della democrazia partecipata, in poche parole dello stato di diritto nella sua più alta concezione.
Il monito di Paolo Borsellino oggi richiama alla nostra attenzione il salto di qualità operato dalla criminalità organizzata, volto alla creazione o al rafforzamento delle basi sociali per una vera e propria accettazione culturale collettiva della corruzione come male necessario.
Il crimine organizzato oggi aspira a generare una vis cui resisti non potest, come il prezzo da pagare per il benessere e la sicurezza stessa, in un sistema in cui i valori si confondono con i disvalori e si mettono in discussione i principi fondamentali della società basata sul diritto.
Ed è su questo aspetto che il pensiero di Borsellino converge sorprendentemente con quello di Falcone. Suddette caratteristiche del crimine moderno sono infatti ricorrenti in tutto il mondo: la transnazionalità delle organizzazioni più attive è una realtà oggettiva.
La stessa corruzione, nelle sue forme più gravi, è transnazionale: la cosiddetta foreign bribery è una modalità operativa diffusa globalmente, che, agendo oltre i confini degli Stati, inquina l’economia e frena lo sviluppo sostenibile dell’intera umanità.
Un sistema di prevenzione e repressione delle mafie oggi non può che essere fondato sulla cooperazione transnazionale da un lato, e condiviso con la società civile dall’altro, proprio attraverso la diffusione della cultura della giustizia ed il consensus building, e cioè la disseminazione dei valori della legalità per rafforzare la società civile in modo da prevenire ogni accettazione o tolleranza di mafie e corruzione.
Questo è in conclusione l’immenso lascito, il testamento spirituale di Paolo Borsellino, con Giovanni Falcone, dal valore altamente strategico ed attuale.
*l’autore è magistrato, consigliere giuridico del Ministero degli Esteri, e presiede il Gruppo di lavoro anticorruzione del G20
Fonte: © Sintesi Dialettica
Foto: L’Avvenire